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Maurizio Geri

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Intervista di Salvatore Esposito – Blog Folk

Come nasce Tito Tariero?

E’ un nome di fantasia che nasce da parole non-sense , come quando canticchi una melodia senza saperne il testo, in effetti è nato proprio mentre stavamo registrando e dovevo cantare la melodia di Melancolia a Giacomo (Giacomo Tosti , fisarmonicista entrato recentemente nello Swingtet) per suonarla all’unisono, poi abbiamo deciso di lasciare la frase “titotariero” proprio in quel punto del brano aggiungendo altre parole a completare la parte. Dopo lo abbiamo promosso a titolo del cd inserendo a quel punto anche foto del mio cane che si chiama Tito…e abbiamo chiuso il cerchio.

Questo nuovo album si inserisce in un tuo personale percorso attraverso il gispy-jazz che si snoda da Manouche e Dintorni del 1996 a A Cielo Aperto del 2002, come si è evoluto il tuo approccio a questo particolare ambito del jazz?

Lo stile manouche è per me una fonte di ispirazione come lo sono altre musiche, da quella popolare a quella colta passando per la forma canzone, ciascun musicista fa tesoro di ciò che lo colpisce e lo emoziona, mette tutto in cassaforte e lascia decantare, poi ogni tanto apre lo sportello e pesca in questo archivio per comporre nuovi brani, sono suggestioni che riaffiorano qua e la.

Si dice Gipsy-Jazz e si legge Django Reinhardt, quanto ti ha influenzato il suo stile e quanto c’è di personale nel tuo approccio alla chitarra?

Quello che mi ha impressionato di Django è il suo lirismo ed il suo approccio agli assolo. Se ascoltiamo versioni diverse dello stesso brano l’improvvisazione di Django segue schemi differenti, difficilmente si notano ripetizioni di frasi fatte, è una invenzione continua ed è sicuramente un atteggiamento pensato. Il mio approccio allo strumento è da autodidatta, normalmente canto prima le melodie o i temi che poi andrò ad eseguire e come dicevo prima ogni musicista ha un bagaglio personale e uno stile che lo rende unico, l’approccio secondo me è sempre personale, certamente vanno coltivate le differenze e le singolarità stilistiche che emergono dal proprio modo di suonare, vanno evidenziate, è un percorso necessario, faticoso ma affascinante.

Durante l’ascolto emerge chiaramente come tu non ti sia limitato a fare il verso a Django ma il tuo suono e il tuo stile si aprono anche ad altre sonorità, ci puoi parlare di questa particolare visione del gipsy-jazz all’italiana?

Cerco di pensare alla musica che può essere prodotta da un insieme di strumenti, in questo caso due chitarre (l’altra è di Luca giovacchini) , contrabbasso (Nicola Vernuccio, con Luca uno dei fondatori dello Swingtet), clarinetto (Michele Marini) e fisarmonica, l’idea alla base è dare voce ad ogni strumento e raggiungere un equilibrio formale. Facendo ciò si utilizzano schemi che sono già collaudati e anche si percorrono nuove strade, per evitare di essere surrogati o copie sbiadite di qualcun altro. Il repertorio aiuta molto, è l’insieme di repertorio, stile e arrangiamento che caratterizza il suono del gruppo più delle singolarità solistiche che restano diciamo così asservite all’insieme, è stata questa la direzione che ho cercato di dare allo Swingtet in tutti questi anni. La cornice in cui ci muoviamo è caratterizzata parecchio dal gypsy-jazz ma il risultato è piu ampio, non lo ridurrei all’interno di un genere.

Il disco è stato registrato dal vivo in studio con il tuo Swinget, ci puoi parlare delle sessions?

Il cd è quasi interamente live, a parte poche sovra incisioni, abbiamo voluto mantenere la freschezza generale a scapito di piccole imperfezioni esecutive che normalmente non passano le maglie della registrazione multi-traccia (una traccia alla volta). Il rischio che si corre nell’eccessivo perfezionismo e pulizia è che alla fine suona tutto freddo e la musica viene svuotata di anima e calore. Inoltre ascoltando il brano nella sua interezza si ha subito la percezione del lavoro finito, abbiamo fatto diverse take d’insieme e scelto le migliori.

Sono molto contento del risultato.

Nell’album sono presenti numerose composizioni originali, cosa ti ha ispirato nella composizione di questi brani?

Ogni brano ha una sua storia personale, ho riascoltato anche vecchie idee che hanno portato per esempio a realizzare “Foresta” , di solito lo studio dello strumento mi ispira e mi conduce a nuove composizioni.

Tra i brani di tua composizione particolarmente accattivanti sono Piccolo Valzer e Presente Archeologico, come nascono questi due brani?

Piccolo valzer è un pezzo che ha qualche anno, le prime due lettere sviluppano una melodia canonica, la parte C subisce influenze latine nella divisione ritmica del tema, Presente archeologico è l’unica canzone del disco, ci sono ottimi consigli se dovrete fare un regalo ad un amico/amica archeologa…è un brano nato dopo una gita al mare con la mia ragazza, sono contento di averlo arrangiato in modo così semplice, per tre strumenti piu voce (pianoforte, contrabbasso , chitarra), mette in evidenza il testo.

Non mancano alcuni standard come la splendida Melodie Au Crepuscule di Django, come mai hai scelto proprio questo brano?

E’ un brano molto bello che suono da tanto tempo, ha il pregio di poter essere suonato con chitarra sola sia perché è un “medio” come tempo, e quindi non necessita di una esecuzione forsennata, sia per la particolare costruzione armonica che pone la nota più acuta dell’accordo a disegnare la melodia, dunque un brano squisitamente chitarristico.

In scaletta è presente anche il traditional Cette Nuit Là, altro brano particolarmente affascinante nella sua esecuzione…

questo pezzo è stato registrato completamente live perché ha al suo interno molte variazioni di velocità, lo suonavamo nel periodo di “a cielo aperto” (2002) quando collaborammo e incidemmo insieme al fisarmonicista Enzo Biordi che ce lo insegnò, Enzo aveva suonato molti anni con Titi Winterstein ed altri manouche alsaziani, è stato un incontro bellissimo che ricordo con gioia.

Dal gipsy-jazz ai suoni della dorsale appenninica e quelli world, si può dire che nella tua carriera tu non ti sia fatto mancare nulla, ci puoi parlare del tuo personale percorso di ricerca artistico?

Ho iniziato con la musica popolare toscana e ho suonato molti anni con Caterina Bueno, è stata la prima grande scuola per così dire “non accademica”, con lei ho conosciuto il patrimonio tradizionale italiano ed i primi festival internazionali. Mi ha insegnato ancor di più ad amare e apprezzare le radici della nostra musica, mi ha trasmesso un rigore e una cura del particolare che poi ho trasferito nell’affrontare altri mondi musicali. La ricerca è importante, direi di più, è un diritto che dobbiamo esercitare, è un albero che ha bisogno di tutti noi per far crescere nuovi rami.

Quanto ha pesato il tuo sodalizio artistico e la tua amicizia con Riccardo Tesi nel tuo percorso musicale?

E’ stato un incontro molto importante, per esplorare paesaggi musicali nuovi a partire da radici comuni, ha rappresentato anche l’apertura concertistica all’estero e le suggestioni globali della world-music. Parallelamente a Banditaliana restano per me fondamentali le produzioni “acqua foco e vento” voluta dalla provincia di Pistoia e “sopra i tetti di Firenze” doppio cd omaggio alla figura di Caterina.

Quali sono i segreti di Maurizio Geri come chitarrista?

Non ci sono segreti, ogni passione impone una dedizione ed un lavoro costante, che quasi non pesa proprio perché nasce come divertimento, questo ti porta col tempo ad incontrare persone che condividono una direzione o un sentimento, certo un poco di fortuna non guasta…

Quanto conta l’improvvisazione nel tuo stile chitarristico?

E’ un aspetto su cui lavoro molto, studio quasi esclusivamente per riuscire ad improvvisare, ho avuto tardi questo approccio e sto recuperando…, mi ritengo per indole un accompagnatore, i temi e le idee nascono comunque e sempre da questo studio sia tecnico che espressivo. Cerco sempre di trovare un equilibrio formale fra temi e improvvisazione, non amo particolarmente la forma tema-soli-tema finale , a parte nelle jam, penso alla musica con gli altri come un’attività piuttosto organizzata, dove ci siano degli spazi per i solisti, delle parti d’insieme e possibilmente delle novità a livello di arrangiamento.

Concludendo porterai in tour questo nuovo disco? Come si evolveranno i brani dallo studio al palco?

Certo, abbiamo in programma di suonare più possibile, nonostante il periodo infelice ci stiamo muovendo con grande entusiasmo ed oltre a diverse date in zona Toscana fra cui il Pinocchio jazz club di Firenze, saremo per esempio al festival Django Reinhardt di Pennabilli (RM) il 30 dicembre, poi a marzo in zona Perugia per una due-giorni all’insegna dello swing , a maggio abbiamo una piccola tournee in Austria con date di appoggio che toccheranno Parma, Rovigo, Trieste e Treviso. I brani sono già abbastanza rodati ma come sai più vengono suonati e più si riesce a trovare quella sicurezza necessaria che trasmette serenità e comunicazione con il pubblico, sempre con le orecchie attente a modificare qua e la gli arrangiamenti, non ci sono altre ricette a parte suonare insieme il più possibile.

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Intervista di Salvatore Esposito per Blogfoolk

A tre anni dallo splendido “Tito Tariero”, il tuo Swingtet torna in pista con “Swing A Sud”, come nasce questo nuovo disco?

L’idea che sta alla base del disco è la stessa che sto sviluppando fin dalla nascita del gruppo, l’Italia a sud dell’Europa, a sud di Parigi, luogo dove dalla penna di Django nasce lo swing manouche. Un genere inteso qui, forse più che nei cd precedenti, come percorso originale, come progetto d’autore, uno sguardo da sud di un musicista italiano nei confronti di una musica lontana nello spazio e nel tempo, che si mescola nel percorso artistico sempre di più con altre suggestioni più o meno moderne, non un processo nostalgico o di maniera, nessun clichè abusato, musica che nasce nel presente fatta per le orecchie dell’ascoltatore di oggi.
Si mette sempre più a fuoco durante gli ultimi anni, alcuni brani erano già in embrione tre anni fa, una formazione fissa è molto stimolante e aiuta il momento compositivo, un organico così vario inoltre fa riflettere molto sugli arrangiamenti che cerco di portare a buon punto alle prove, poi è il confronto d’insieme che conta. Scrivere per questa formazione mi da tante possibilità e tanta soddisfazione.

Da “Ancora Un Ballo” a “Swing a Sud” come si è evoluto il tuo approccio alla chitarra in questi anni?

Bè come sai il primo disco Swingtet risale al ’96 quindi molto prima di Ancora un ballo (2007), il momento dello studio sullo strumento è fondamentale, è da quello che nascono le composizioni oltre alla manualità necessaria, con il passare del tempo riesco ancora a trovare il tempo per esercitarmi, magari curando meno gli aspetti puramente teorici per privilegiare la ricerca di uno stile personale, questo attraverso il suono e appunto la scrittura.

Quali sono le ispirazioni sonore alla base di queste nuove composizioni che guardano a Sud?

L’ispirazione viene da tutto ciò che sento vicino e ho voglia di suonare, però tutti i grandi stili possono diventare gabbie, la priorità rimane quella di evitare la semplice brutta copia di idoli o accostarsi nostalgicamente e in modo superficiale a generi di riferimento, in questo disco ci sono musiche ispirate al tango, al choro, alla canzone d’autore, al liscio e naturalmente allo swing manouche, ma sono tutti brani originali o fortemente personalizzati.

Quali, invece, le differenze con il disco precedente?

Qui c’è più progettualità, nel senso che Tito Tariero ha significato uno sblocco da un periodo di letargo per il gruppo, swing a sud è un disco più pensato, al suo interno c’è molta italianità, anche in riferimento al contributo che hanno dato i nostri emigranti alla creazione dei generi suddetti.

Squadra che vince non si cambia, diceva un noto allenatore di calcio.  Hai fatto più o meno la stessa cosa con il tuo Swingtet. Quanto conta  avere al proprio fianco un gruppo collaudato nel tempo?

Conta moltissimo perché permette di andare in profondità nelle idee, curarle con dedizione, nella scelta del repertorio e negli arrangiamenti, nello Swingtet hanno suonato in questi anni diversi musicisti con i quali mantengo tuttora ottimi rapporti, durante il mio percorso sono cambiati lentamente alcuni obiettivi, per esempio ci siamo spostati più verso la canzone allargando sempre più l’orizzonte sonoro , questo ha portato naturalmente ad adattare strada facendo la formazione. La fondai nel ’95, penso di poter dire che siamo stati i primi in Italia ad aver avuto un approccio di ricerca e innovazione su questo genere, incontrai i “Puro sinto”, gruppo sinti alsaziano, nel 1989 al festival di strada di Pelago (FI)era la prima volta che sentivo un autentico gruppo manouche e vederli suonare fu una specie di rivelazione, ai tempi non c’era internet e nessun metodo cartaceo su cui imparare, ricordo di aver speso molto tempo prima a cercare di immaginarmi quella tecnica, a studiare sui dischi di Django, ma sono sicuro che non è stato tempo utilizzato male, la fatica che fai a imparare a orecchio viene ricambiata da un insieme di memorie e emozioni che poi riversi su quello che suoni. Io nasco come musicista tradizionale e non mi spaventa memorizzare accordi , melodie e strutture anzi, un buon modo che ho per sbagliare è quello di leggere!

E’ nota la tua passione per Django Reinhardt. Ci saremmo aspettati una rilettura di qualche suo brano. Come mai questa scelta?

Riletture ne ho fatte nei dischi precedenti, in generale non amo le cover band o le emulazioni facili, le mode e i tributi ad artisti scomparsi perché fa “figo”, nessuno suonerà mai come Django, a parte il talento puro ci sono epoche diverse, storie diverse, culture geografiche e sociali diverse, persone diverse…insomma tutto ! il maestro indica la strada, l’allievo ne percorre un’altra, al fianco di quella e di altre che lo hanno formato e suggestionato.

Nel disco è presente però una bella versione de “La Palomita Bianca”, un gustoso valzer del 1929…

Ecco, un brano che mi riavvicina all’ambito popolare, una melodia a cui ti senti legato senza spiegartelo, un “sempreverde” come lo catalogherebbe la SIAE, solo a sentirlo ti viene voglia di suonarlo e farlo ascoltare di nuovo.

In “Doppio Swing” suonano due specialisti del jazz manouche italiano Jacopo Martini e Tommaso Papini. Ci puoi parlare  di questa composizione?

Per incidere questo brano ho pensato ai due musicisti che potessero interpretarlo con grande empatia, l’amore condiviso con Tommaso per la scuola tedesca (Titi Winterstein, Lulu Reinhardt)e la creatività solistica di Jacopo hanno dato nuova vita a questo pezzo (già inciso su “L’uovo di Colombo”), il doppio swing è diventato triplo e anche quadruplo pensando al basso di Nicola Vernuccio, non avrei potuto fare scelta migliore!
9. Una delle composizioni più eleganti è “Gina”, come è nato questo brano dalla struttura così sofisticata?
L’idea del pezzo risale a quasi venti anni fa…. Per fortuna l’avevo salvata in memoria, la mia…, è un valzer dedicato a mia nonna, Gina, appunto. Avevo solo una frase che poi ho sviluppato in vista della registrazione, alla fine il valzer si compone di quattro lettere alcune più tradizionali altre più moderne.

10. Tra i brani più affascinanti del disco c’è anche “Mack” che vira in un medium swing pregevole…

Questa canzone ho voluto lasciarla semplice così come è nata, non ho aggiunto altre lettere ma ho sviluppato una variazione strumentale che viene ripresa anche nella coda, è dedicata ad un amico della montagna pistoiese, ho inserito un campione del suono della cometa 67/P così come una meteora è stata la sua vita, è il mio brano preferito.
11. Come mai hai deciso di dedicare “Con Te” a Paolo Conte?
Chi scrive brani swing in italiano incorre facilmente nel rievocare l’ambiente contiano, il “maestro” è un riferimento importante per tutti noi “ragazzi scimmia del jazz”, spesso mi è capitato di sentirmi dire che alcuni pezzi assomigliavano ai suoi nonostante facessi di tutto per allontanarmene e cercare una scrittura originale, con questo brano in particolare non ho aggirato l’ostacolo ma direi che ci sono passato attraverso… è dichiaratamente un brano contiano dedicato, scritto e arrangiato per lui, spero che questo omaggio gli faccia piacere.

12.
“Dolce Chimera” è nata dalla musica di Carlo Venturi, figura storica
del liscio romagnolo. Come hai deciso poi di aggiungervi il tuo testo?

Era da un po’ di tempo che volevo affrontare questa sfida, apprezzo molto l’operazione che sta portando avanti Andrè Minvielle sul repertorio musette francese, lui ha messo diversi testi a valzer famosi come Indifference o Flambèè Montalbanaise, così ho pensato di fare la stessa cosa in italiano: ho scelto questo pezzo di Carlo Venturi, Chimere, perché oltre ad essere un bellissimo valzer mi sembrava adatto ad essere cantato, insomma mi ha ispirato. E’ stato un lavoro molto impegnativo, la melodia è piuttosto articolata essendo un pezzo per fisarmonica e la sillabazione è al limite della pronunciabilità, ma l’idea era proprio questa, grazie a Claudia Tellini e alla sua interpretazione acrobatica siamo riusciti a realizzare il pezzo ed a vincere con divertimento la sfida!

13.
La tua attività artistica si divide tra questo progetto e Banditaliana
con Riccardo Tesi. Quanto è importante per te lavorare su due fronti
diversi, ma per tanti versi anche in continuità dal punto di vista
creativo?
E’ molto importante differenziare il lavoro, non dico di disperdere energie in cento progetti ma di avere due-tre alternative importanti in cui credere e impegnarsi è salutare direi per lo stimolo artistico. In Banditaliana ultimamente curo di più le stesure dei testi mentre nello Swingtet mi occupo sia della scrittura che degli arrangiamenti, in generale mi piace sempre mettere del mio nella musica, così mi sento più realizzato, è una attività che da tanta soddisfazione, non la troverei nell’eseguire semplicemente degli standard.

14. Concludendo come saranno i concerti di “Swing a Sud”?
In questi anni ci siamo sempre di più spostati a “sud” con la musica, dalla ispirazione originale al magistero di Django ho sempre cercato una strada più possibile personale e più possibile italiana per lo Swingtet, questo attraverso le composizioni ma anche con riletture di compositori italiani e una ricerca estetica che mi ha portato ad escludere tutto ciò che ritenevo banale o scontato, più che tanti discorsi restano comunque i lavori discografici e i concerti dal vivo a indicare al meglio la sintesi del nostro percorso di questi anni.

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Come hai iniziato a suonare? È stato a Pistoia?

Sono nato sulla montagna pistoiese dove abito tuttora, ho iniziato da piccolo con la musica popolare a seguito del gruppo “collettivo folkloristico montano” e grazie alla ricerca etno-musicale effettuata da Sergio Gargini e dai suoi collaboratori sul nostro territorio; ho iniziato cantando e accompagnandomi con la chitarra.

A 18 anni mi ha chiamato Caterina Bueno per suonare nel suo gruppo, all’epoca suonavo anche l’organetto che ho lasciato definitivamente pochi anni dopo per riprendere lo studio della chitarra in maniera più seria.

Sono entrato successivamente nel quartetto Banditaliana di Riccardo Tesi e contemporaneamente ho dato vita ad un mio gruppo “M.Geri Swingtet”, queste due formazioni sono ancora in attività dopo più di vent’anni.

Come e dove hai suonato a Pistoia, quali sono stati i tuoi primi locali?

A Pistoia ho suonato dovunque, dal Tito’s al Risidò ma chi se li ricorda tutti? Le cose più importanti sono stati i numerosi concerti al teatro Manzoni, quelli a “Sentieri acustici” e le due partecipazioni al Pistoia Blues.

Quali sono le differenze tra suonare all’estero e in Italia?

All’estero c’è più attenzione e rispetto per la musica e i musicisti, pagare un biglietto è normale mentre da noi passi quasi da presuntuoso. Sarà che all’estero quelli “esotici” siamo noi.

L’esperienza più strana che ti è capitata all’estero?

Una volta alla fine di un concerto, l’organizzatore ci offrì altri soldi per suonare ancora 10 minuti, cosa che facevamo normalmente con i bis….

Come ti sembra l’attuale scena emergente pistoiese?

C’è tanto fermento e tanti bravi musicisti giovani, l’indotto del festival blues e di altre rassegne limitrofe come “Itinerari musicali” o “Serravalle jazz” ed il supporto delle scuole di musica ha stimolato e incuriosito molte persone.

Secondo te cosa c’è di buono e cosa manca a Pistoia per valorizzare la musica?

Abbiamo tanti talenti e molte persone di buona volontà.

Mancano gli spazi, manca una sala attrezzata che permetta la giusta visibilità ai musicisti locali e l’incontro con realtà diverse, mancano i fondi per strutturare una programmazione di base durante tutto l’anno. Mancano le strutture che stanno a metà fra il teatro e il pub, una direzione artistica e una gestione intelligente, svincolata dai rientri economici. Per fare cose belle ci vogliono investimenti e non servirebbe poi così tanto, ma siamo in un paese dove si dice che con la cultura non si mangia quando secondo me sarebbe proprio quello il nostro punto di forza.

Progetti per il futuro?

E’ uscito da poco il disco “Maggio” con Banditaliana, sto realizzando il nuovo cd “Swingtet” dal titolo “Swing a sud” e ultimamente ho realizzato un libro didattico dal titolo “La chitarra jazz-manouche” distribuito da Curci. Fino all’estate faccio pausa…poi si ricomincia.